Adele

 

Marco Casalvieri




I piedi di Adele estate e inverno calzati in sandali o ciabatte aperte non sembrano temere il freddo. Soffrono in realtà molto di più le scarpe chiuse. Le due dita accavallate del piede sinistro, da che ho memoria, sono sempre lì a tormentare le altre e a rendere il suo passo così riconoscibile, così unico. La prima volta che sentii dire: "incrociamo le dita", avrò avuto quattro anni, chiesi a mio padre cosa significasse e così pensai che Adele doveva essere lì a pregare la fortuna da chissà quanto tempo e quella evidentemente non l'aveva mai accontentata. Eppure, a dispetto di quei piedi, tanto scaramantici quanto dolenti, ad Adele il sorriso non aveva mai fatto difetto. Un sorriso mite e dolce, il sorriso di chi non ha mai neppure pensato di alzare anche una sola volta la voce. Il sorriso della pazienza, di chi ha faticato e si è guadagnato il pane un giorno per volta. Ora siede nella penombra del piccolo salotto che odora di cera per il legno, della lavanda del detersivo per le mattonelle tirate a lucido. Le mani forti di chi ha lavorato la terra, impastato pane e pasta, lavato i panni a mano per anni perché la lavatrice era un lusso che solo troppo tardi si è potuta concedere. Mi ha atteso tutto il giorno come si attendono le buone notizie, come si attende che si realizzi una promessa, mi ha atteso come sempre, come un dono. Siede nella penombra impaziente che le racconti della mia giornata come altri aspetterebbero la nuova puntata di una serie molto amata, il successivo capitolo di un thriller con cui si è fatta nottata. Eppure le mie giornate sono fatte di poco. Appena entro noto che si è fatta fare la tinta dalla vicina di casa, se la fanno a turno l'una all'altra da anni, e mentre lo noto le dico che le sta bene e lei arrossisce, felice che me ne sia accorto. Mi siedo di fronte a lei e cerco di studiare la luce, mette le mani in grembo, poi ha un ripensamento e le poggia insicura sulle cosce. Indossa una maglia turchese che le avevo regalato a Natale qualche anno fa, nel dargliela le avevo detto che pensavo che quel colore potesse donarle ma le avevo anche chiesto di dirmi se non le piacesse perché avremmo potuto cambiarla. In realtà non gliel'avevo mai vista indossata. Si è preparata per quello che inizieremo a fare, il motivo della mia visita di oggi.La luce filtra dalle tende che lei stessa ha ricamato molti anni fa per un corredo che è rimasto a lungo in un cassone prima che ammettesse che era meglio usarlo che lasciarlo ingiallire e mangiare dalle tarme; troppo intelligente Adele per accontentarsi di "un" uomo da scambiare con la solitudine cercava rispetto e affetto, cercava condivisione, non li ha trovati ed è andata dritta per la sua strada. Entrambi, imbarazzati procrastiniamo il momento: lei teme di non essere adeguata a farmi da modella, io temo di non essere all'altezza delle sue aspettative. Tutti e due però sappiamo che è impossibile deluderci a vicenda. Adele è ciò che di più caro ho al mondo anche se non mi è toccata né per sangue né per geni. Io sono il futuro che si è conquistata con l'amore che mi ha dimostrato dal primo giorno di cui ho memoria, perché la storia da ricordare è iniziata con lei. Ho avuto due genitori a cui tale ruolo non si attagliava. Se ho smesso di essere arrabbiato con loro per questo motivo lo devo ad Adele che ha colmato le voragini e smussato gli angoli, che ha insegnato all'uomo che sono diventato a guardarli come si guarda a due persone al netto di ciò che non hanno saputo fare. E grazie a questo sono riuscito a non potarli come si farebbe con un ramo secco, certo non un rapporto fatto di complicità e affetto, ma sono in grado di vederne i lati buoni: dedizione allo studio e al lavoro, interesse per l'arte, amore per la buona tavola e il vino e non ultima una buona cerchia di amici che in qualche modo hanno sostenuto il lavoro fatto da Adele nel crescermi senza essere divorato dal rancore delle mancanze. Potrei definirmi il figlio di una tribù di cui Adele è stata il capo inconsapevole. È entrata nella mia vita con un ferro da stiro in mano. Una volta lasciata la campagna andava infatti nelle case a stirare. Deve essere innato in lei l'istinto di appianare, di togliere le grinze a ciò che è stropicciato. Così cominciò anche a casa dei miei genitori, io avevo tre anni ed ero un bambino tanto solitario e triste quanto curioso - mi ero appena affacciato alla soglia dei perché con i quali tormentavo qualunque adulto trovassi sul mio cammino. Mio padre e mia madre erano soliti rispondere in maniera dettagliata fino a circa il terzo di fila, poi sfiniti si nascondevano dietro a una scusa qualsiasi per non permettermi di andare oltre. Quando rivolsi ad Adele il mio primo perché, lei mi guardò e in tutta onestà mi disse che non ne aveva la più pallida idea perché non aveva potuto studiare ma che se avessi voluto poteva raccontarmi una storia e prepararmi un uovo sbattuto. Io in cambio avrei dovuto aiutarla a piegare i panni e a riporli. Lo trovai uno scambio equo sebbene non avessi mai mangiato un uovo sbattuto e non sapessi che storia mi avrebbe raccontato. L'uovo sbattuto, passato di moda da decenni, resta la mia merenda preferita ancora oggi, Adele è da allora la mia personale Sherazade anche se non racconta storie di Visir o di Sultani. Confesso, quel giorno mi scapparono ancora una serie di "perché durante il racconto ma, come tutte le fasi, anche quella dei perché ebbe presto fine. Adele no, non è mai passata. Tra le cose di cui sono riconoscente a mia madre c'è il fatto che si rese rapidamente conto dell'importanza che la presenza di Adele aveva iniziato ad avere nella mia vita e non ne fu gelosa , anzi la considerò una fortuna inattesa essendo consapevole che essere madre le risultava tutt'altro che naturale. Così ora che mi sono sistemato con la tela e la tavolozza prego Adele di iniziare ancora una volta a raccontare e, finalmente rilassati, ritrovando gli spazi che ci sono più congeniali da sempre, inizio a catturarla cercando di restituire la sua splendida luce .









Commenti

  1. Che bel gioco di rimbalzi, dalla tela alle tue parole per fare ritorno alla tela. Questa volta non ti sei limitata a prendere spunto da un quadro per raccontare una storia, sei andata oltre immedesimandoti nel pittore e portando con disinvoltura i suoi pantaloni e i suoi pennelli. Molto brava.
    massimolegnani
    (orearovescio.wp)

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