Scripta volant
Marco Ieie |
Inevitabilmente successe anche quel giorno, come sempre, da quella prima volta accaduta un mattino di un anno, di un secolo, di un millennio precedente. Era un bambino allora, era un uomo con più anni dietro che davanti a sé ora: la matematica non è un'opinione, la biologia neppure. C'era qualcosa in quel gesto semplice che sapeva renderlo immortale. Quindi se lo concesse ancora una volta. Si preparò come un orientale potrebbe predisporsi alla cerimonia del tè, come per un rito. Organizzò gli spazi, le luci, gli oggetti che avrebbero reso più intimo il viaggio. Il dito a scorrere sui caratteri come le prime volte in cui la liturgia costava fatica, ora rimaneva solo il piacere del contatto con la carta a palparne consistenza e ruvidezza. Poi spiccò il volo, o meglio stette, così come indicato, sull'orlo del nido: la paglia e i piccoli stecchi che aveva trasportato in un incessante andirivieni, nelle ore e nei giorni con sapienza e istinto, come era stabilito nel sacro codice, accoglievano ora tre uova non ancora schiuse. La cova era un gioco di pazienza, una prova di costanza, di fede nel futuro. Ma cosa ne sapeva col suo piccolo becco e le sue tener piume del futuro? Attendeva che i raggi del sole lo scaldassero. Stava dando il cambio alla sua compagna e immaginava di godersi il paesaggio. Ma non sapeva ancora come fosse quel paesaggio, non vi erano ancora parole per quello. Eppure doveva conoscerlo molto bene tanto da avervi costruito il nido, tanto da aver deciso con la compagna di deporvi le uova. A ben vedere non doveva filtrare molta luce tra i rami, infatti non una parola, al momento, pennellava i colori, identificava le sfumature, centinaia di lettere invece erano state mischiate e ben composte a descrivere la compattezza del legno dell'albero su cui era posato il nido, i nodi sporgenti, la porosità della corteccia, il modo in cui andava sfaldandosi, i solchi, le cribrosità. Le parole si avvicendavano obbedienti in una fitta oscurità da cui il piccolo volatile risultava intimorito. Nei libri infatti un buio così fitto e denso non lascia presagire nulla di buono. Il dito che insegue le lettere sulla carta giunge all'uscio di una piccola casa ai margini del bosco, ha una porta ad arco, il tetto aguzzo, ricoperto di scandole, non se ne fanno più di tetti così . Ci vuole sapienza perché l'acqua non vi si infiltri con le piogge battenti dell'autunno o quando la neve, che resiste aggrappata alla sua pendenza, si scioglie ai primi raggi di sole. Anche la casa è buia, deve essere stata una notte senza stelle e senza luna e ancora la luce non supera i ripidi fianchi dei monti. La casa è composta da una sola stanza: un tavolo, una sedia, una stufa a legna e un letto singolo. In quel letto dorme un uomo, le parole dicono che il suo sonno è agitato. Ha cercato la solitudine e l'ha trovata. Ora però lo opprime, ci sono molte parole a descrizione di quel silenzio roboante. Non sono i rumori del bosco a spaventarlo: a quella sinfonia, per alcuni sinistra, è avvezzo. È il ticchettio dei suoi pensieri che si rincorrono, a volte incespicano, poi si rialzano, riprendono veloci, così veloci da lasciarlo senza fiato. Ha creduto che ritirarsi lì sotto le montagne lo avrebbe liberato. Si sarebbe inerpicato per i sentieri erti, un passo alla volta fino alla cima e nel guardare lontano avrebbe saputo vedere dentro a se stesso e si sarebbe bastato. Ma così non è stato e la sua inquietudine lo ha braccato fino a lì. Nel sonno agitato, che va facendosi sempre più leggero, inconsapevolmente attende il canto degli uccelli, segnale che la notte volge al termine. Allora si alzerà e riaccenderà la stufa con la legna sottile e un po' di carta, magari qualche brace cova ancora sotto alla cenere, le parole ci dicono che i gesti quotidiani allontaneranno almeno per il momento il panico del vuoto per l'abitante della piccola casa, ma ancora il canto non si avverte. La descrizione si è prolungata, il lettore distoglie lo sguardo dalle pagine, l'incanto si è rotto, guarda l'orologio, si è fatto tardi, sbircia quanto manca alla fine del capitolo, troppo per oggi. Inserisce il segnalibro, una cartolina del nipote in vacanza che si diverte a perpetuare per lui una obsoleta usanza. Appoggia il libro sul tavolino basso di fianco al sofà. Pensa a quello che ha già letto dello stesso autore, fino ad ora non lo ha mai deluso, ma questo inizio gli appare fiacco: un uomo solitario in una piccola casa sotto ai monti, poi però pensa all'uccello che per il momento aspetta nel nido e non canta e pensa a quel buio fitto e a tutte le parole che serviranno per dipanarlo. C'è ancora molto da gustare perché la storia è lunga. Il viaggio è appena cominciato
Funziona, a parte che un solitario non dovrebbe avere carta per accendere un fuoco.
RispondiEliminaLa lettura vista così sa di superficiale, cominciamo e smettiamo quando vogliamo senza tener conto che il testo che stiamo leggendo potrebbe essere vivo e la nostra interruzzione casuale non sarebbe rispettosa per i personaggi del libro.
dovremmo vedere da prima se riusciamo a leggere fino alla fine del capitolo o almeno al capoverso senza interrompere casualmente.
Con una persona che ci sta raccontando la sua vita non ci alzeremmo mai dalla sedia andando via.
Questa cosa sembra una serie di scatole cinesi, marco pensava una cosa, io ne ho intravista un'altra e tu da quello che ho scritto io ancora un'altra. Molto interessante
Eliminauna suggestione mirabile come un disegno di Escher, questo brano.
RispondiEliminamassimolegnani
Molto bello... (Hobbs)
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