La prima pagina


Quint Buchholz 




La scelta era caduta su una località di mare. Si era infatti domandato se potesse esserci qualcosa di più isolato di una località di mare in pieno autunno. La solitudine priva di silenzio che la risacca di un mare, magari agitato, poteva offrire. Non amava infatti il silenzio, in realtà era il disamore di un amante abbandonato. Un rombo modulato abitava infatti il suo orecchio sinistro con la protervia di un inquilino che ha smesso da tempo di pagare il canone e occupa abusivamente l'appartamento di vostra proprietà in cui voi stessi avreste la necessità di trasferirvi. Ormai ci aveva fatto l'abitudine ma trovarsi tȇtȇ-à-tȇtȇ con l'inopportuno ospite non era auspicabile specie quando si andava in cerca di concentrazione. Aveva deciso di viaggiare in treno anche se il viaggio sarebbe stato non solo più lungo (due cambi con una sosta piuttosto lunga prima del secondo, tenendo conto che l'inevitabile ritardo sarebbe stato incompatibile con la coincidenza precedente) ma anche più costoso. Gli era da sempre inspiegabile come potesse costare meno viaggiare da soli in auto tenendo conto di benzina e pedaggi rispetto a viaggiare in centinaia sullo stesso mezzo di locomozione e senza pedaggi. Tuttavia non aveva mai amato guidare per lunghi tragitti da solo quindi aveva optato per il treno. Aveva messo in una vecchia valigia, rigorosamente senza ruote, il minimo indispensabile di effetti personali e un numero di libri sufficiente a dare l'idea di casa al luogo dove avrebbe abitato, aveva girato il rubinetto del gas, indossato un soprabito e un cappello e si era avviato verso la stazione. Nella tasca l'edizione economica di un quasi classico che da principio aveva snobbato come faceva spesso con il libri di maggior successo, erano tuttavia passati diversi anni dalla sua uscita e aveva decretato che fosse giunto il momento di estrarlo dalla pila della vergogna dei libri acquistati per il famelico desiderio di possesso che da sempre i libri suscitavano in lui e di portarlo con sé. Si era osservato da fuori con il pensiero che questa sua partenza potesse rappresentare un buon incipit. In attesa del treno aveva persino preso qualche appunto. Poi inorridito aveva pensato a sé e a quella possibile prima pagina come a uno stereotipo: un uomo di mezza età in cerca di un luogo dove raccogliere le idee per ricominciare a fare fluire i pensieri sulla carta in fuga da quel famigerato blocco dello scrittore che per tanti anni gli era parso una sorta di incredibile leggenda dato che senza leggere e scrivere riteneva di non poter nemmeno immaginare di sopravvivere. Prese posto sul treno ma subito si fece catturare dal frenetico flusso di persone che salivano e scendevano da un treno regionale oppressi dagli oneri della quotidianità. Due ragazzi, le cuffie indossate, parlavano tra loro a una intensità esagerata, dovendo superare con la voce il volume di quanto già arrivava loro alle orecchie, tramite gli auricolari, a cui evidentemente non erano in grado di rinunciare. Un bambino piccolo, giudicò dalla tonalità, piangeva pochi sedili più avanti, la madre chattava al cellulare e non tentava nemmeno di consolarlo. Iniziò quindi a scrivere della babele che lo circondava ma abbandonò l'idea convinto di non riuscire ad aggiungere nulla di personale a quanto era sotto gli occhi di tutti. Lasciò scorrere lo sguardo oltre il finestrino del treno finalmente in movimento. Gli edifici alti e bassi di un guazzabuglio urbanistico lasciarono il posto a capannoni industriali molti quali in stato di abbandono stavano per essere fagocitati da grovigli di sterpi e alberi incuranti di dove mettevano radici pronti a riappropriarsi di quanto era stato loro sottratto. Immaginò quindi di raccontare la storia di una di quelle radici l'allungarsi, il ghermire, il contorcersi, l'avvinghiarsi. Durante la sosta di viaggio più lunga fece il gioco che era solito fare quando viaggiava da bambino con sua sorella: immaginò la storia di alcune persone che sedevano al bar della stazione, ne disegnò il carattere, il lavoro, il motivo del viaggio, la meta. Finalmente a sera giunse a destinazione. La casa che avrebbe abitato era un bungalow direttamente sulla riva del mare, alle spalle la pineta, un fornello, un minuscolo bagno, un tavolo e due sedie, un letto con un paio di stipetti a fare da credenza e armadio, non si era aspettato altro. Tra sé la definì una reclusione volontaria in luogo di mare e ci rise pure perché gli suonò come un bel titolo per un racconto. E quella sera dopo una doccia iniziò a scrivere di questa sua cella monacale con le onde che si infrangevano sulla battigia e una umidità salsa che impregnava le coperte nonostante la stufetta fosse accesa già da prima del suo arrivo grazie a un gesto gentile della proprietaria . C'era una chitarra appesa al muro tra le due piccole finestre sopra il letto, se solo avesse saputo suonarla. La mattina appuntò il sogno che aveva fatto, da quanto tempo non ricordava un sogno, e gli sembrò un segno da non sottovalutare. Nel sogno una candela ardeva per ore senza mai consumarsi e faceva una luce bianca, innaturale; eppure ad allungarvi sopra il dito bruciava come qualsiasi altra candela. La giornata era mite, decise quindi di trascinare il tavolo fuori casa dal lato del mare e si mise all'opera, scrisse per ore, ogni volta gli sembrò di aver trovato un ritmo, un personaggio, un'ambientazione, un'epoca adatta, poi si lasciò distrarre dal volo di un gabbiano lo seguì a lungo e quello atterrò sulla sabbia non lontano da lui, allora si alzò dal tavolo e si diresse in quella direzione e fu così che notò una scarpa di donna sulla rena bagnata. Era una scarpa elegante col tacco a stiletto. Tornò al tavolo e scrisse della donna cui era appartenuta quella scarpa, di come e quando l'aveva smarrita, immaginò la donna vagare con la scarpa superstite tra le mani travolta dall'emozione che l'aveva condotta, in una serata che richiedeva un abito elegante, sulla riva del mare, scrisse della stoffa dell'abito che indossava, della cura con cui lo aveva scelto, della pelle della sua nuca, del profumo tra i suoi seni ma non seppe dire null'altro di lei e l'abbandonò lì a vagare solitaria senza sapere se se ne fosse andata infelice o incurante della scarpa smarrita perché la gioia a volte richiede di immolare un tacco dodici alle onde. Raccontò quindi la storia di un granello racchiuso in una clessidra della sua perenne discesa per sentirsi vivo uguale agli altri eppure così unico. La sera ritirava il tavolino accendeva la stufa camminava fino al paese in cerca di un un pasto caldo che non fosse solitario ma finiva con lo scambiare solo due parole con l'oste e riprendeva a scrivere anche lì: del profumo della minestra, della faccia stanca della cameriera, della televisione accesa e muta e della radio che raccontava storie fuori sincrono con le immagini in una sorta di schizofrenia narrativa. Quando ne ebbe abbastanza di tutti quegli inizi senza seguito, rifece la valigia, si chiuse alle spalle la porta del bungalow, distese sulla sabbia tutte le prime pagine di quei giorni, dopo averle lette a una a una, salutò il gabbiano e riprese la strada di casa 

Commenti

  1. Coabito anche io con un acufene persistente che diventa protagonista però, solo quando viene chiamato in causa. Per il resto se ne sta buono, o meglio, io riesco a renderlo simpatico arredamento. Forse al mare lo confonderei ancor meglio, mischiato a risacca infinita, comporrei mille incipit anche io, che per abitudine, invece, tengo legati in un blocco, e sfogliandone le pagine poi, ritrovo vecchi spunti. Lastricarne la spiaggia, magari, favorirebbe percorsi curiosi - anche un romanzo intero -, tipo quelli che in auto suggeriscono certi navigatori monelli, ma in treno si scrive meglio, e comunque (detto tra noi) si paga anche meno.

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    1. Trovi economico viaggiare in treno? Io nelle orecchie ho una fanfara a sinistra e una specie di boato mutevole a destra, per una che sente poco o niente fin troppo rumore

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  2. Ahh si!
    Ti ritrovo dopo un tempo lunghissimo eppure mi pare ieri che mi immergevo nei tuoi racconti perché alla fine siamo sempre noi.

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