Nero su bianco

 

Quint Buchholz 





E lo scrissi su quelle pagine non più bianche, in quel libro che andavamo riempiendo di volta in volta. E lo lesse, lì appoggiato al muro, ciò che avevo scritto. Aveva scelto lui la posizione del libro, una distanza dal letto tale che i suoi occhi, non più bambini, avessero modo di mettere a fuoco quanto gli dicevo, nero su bianco. E poiché era la nostra liturgia, compilare e sfogliare quelle pagine, a noi consacrate, si era deciso che si sarebbero usati nero di china e pennino immerso in un calamaio per vergarle. Avevo scovato tutto il necessario al mercatino dell'antiquariato che si svolgeva la terza domenica del mese. Amavo passare tra le bancarelle su cui facevano bella mostra obiettivi di vecchie Leika, casse di dischi in vinile, testiere di letto in ferro battuto, rare prime edizioni, raccolte di fumetti, immaginando la casa in cui saremmo potuti vivere, tanto ricca di "ciarpame" ,come chiamava lui il superfluo che rende unica una casa, quanto era spoglia la stanza che ci ospitava: quasi una cella monastica. Uno specchio appeso alla parete, che avevo preteso per potermi decentemente ripresentare al mondo quando lasciavo la stanza e che che lui dispettoso aveva appeso ad un'altezza tale da dovermi chinare o, come piaceva a lui, da essere costretta a recuperare una delle due sole sedie presenti in quella stanza e sedermi di fronte a lui, che sdraiato sul letto mi osservava con occhi sornioni mentre mi spazzolavo i capelli o mi truccavo, pochi libri appoggiati alla parete sul pavimento, non c'erano infatti né un comodino né una libreria o uno scaffale, un piccolo letto singolo che rubava al sonno le poche ore che tendevamo a dedicargli in quel periodo, un porta bugia appeso sopra i libri perché io trovavo compassionevole la fievole luce con cui quell'unica candela svelava il mio corpo. Da principio avevo pensato di regalargli quel set da scrivania da posare sullo scrittoio di legno di pero rosato, unico altro mobilio di quello studio, ma finirono col diventare testimoni, anzi complici, del nostro progetto. Sulle pagine di quella sorta di diario di bordo, comparivano sempre data e ora all'inizio, come in una missiva, che corrispondevano a quelli di quell'incontro, e proprio come una lettera iniziavano con Caro o Cara, a volte si dilungavano in meticolose descrizioni di richieste, a volte erano solo lo stringato riassunto di una necessità impellente e terminavano con un saluto affettuoso, una data e un'ora diverse e quelle rappresentavano l'appuntamento del prossimo incontro. La nostra relazione era cominciata come tante altre, uscendo a cena con amici comuni e poiché gli amici si scelgono, sapevamo di condividere, fin da principio interessi comuni e chiacchierammo ridendo di gusto apprezzando l'ironia l'uno dell'altra. Uscimmo ancora in gruppo per un cinema infrasettimanale, essendo costretti a sveglie all'alba gli altri tornarono a casa finito il film e noi proseguimmo la serata in un bar e poi decidemmo di incontrarci nuovamente per una cena il venerdì successivo, e finimmo a letto subito a casa mia e trovammo che i nostri corpi sapessero quasi meglio di noi cosa cercare da quell'unione. Per qualche settimana non cercammo altro che sesso. Ma non è in fondo sempre così quando ci si innamora? Il fatto è che non volevamo che quella fame e quella sete si spegnessero, come inevitabilmente succede, per trasformarsi in altro. Affittammo quindi lo studio, il pretesto era che lui da tempo cercava un luogo in cui potersi concentrare per suo progetto, ma il fatto che avesse comunque lavorato in casa fino a quel momento e che io mi fossi offerta di dividerne le spese e lui avesse accettato senza discussioni, come se fosse cosa ovvia, ci rendevano entrambi consapevoli di cosa quel luogo avrebbe rappresentato. La nostra storia tuttavia non si trasformò solo in quello, continuavamo infatti a trovarci con gli amici, a volte uscivamo solo noi, ci furono weekend insieme, serate a teatro o visite a musei ma quello fu da allora il luogo deputato al desideri, li mettevamo sulla carta e li esaudivamo. Una volta durante un weekend in gita trasgredimmo ai patti e ci saziammo a lungo l'una dell'altro nella stanza d'albergo che avevamo prenotato, la vivemmo come un'eccezione che non si sarebbe ripetuta. Ora dalle persiane la luce filtrava in linee parallele sulle assi di legno del pavimento, l'avevamo attesa a lungo quella luce per volontà comune non c'era che un telo bianco poggiato sul piccolo letto, non era la stanza di due sposi ma l'altare di due amanti, un plaid ce l'eravamo concesso quando la storia, iniziata in primavera si era prolungata oltre l'estate, per cuscino si usavano quelli che normalmente stavano sulle sedie. In quel luogo celebravamo il nostro piacere reciproco, il giorno in cui non ci fosse stato più nulla da immaginare, più nulla da sentire, più nulla da desiderare le pagine di quel nostro epistolario sarebbero rimaste mute non sarebbero più state vergate. La volta precedente era toccato a lui scrivere la lettera, la data che avevo letto a fine missiva era così in là nel tempo da farmi temere che il nostro gioco fosse giunto al termine. Mi ero sentita una bambina messa in castigo eppure quel giorno mi era sembrato di sentire da parte sua il solito trasporto di sempre. Per le settimane successive a quel nostro ultimo incontro mi risultava struggente pensare a lui, il mio corpo non trovava requie. La terza settimana era venuto con me al cinema, aveva chiamato lui per propormelo, nessuno dei due aveva accennato all'epistolario, alla data, al desiderio. Il giorno prestabilito la mia mano tremava nell'inserire la chiave nella toppa eppure era lì. Alla luce della candela. Come aveva richiesto nell'ultima lettera ci spogliammo e per tutta la notte restammo coricati nel piccolo letto, la pelle sudata, elettrici, consapevoli del desiderio reciproco ma attendemmo l'alba. L'alba che essendo autunno pareva non arrivare mai. Quando la luce filtrò finalmente tra le persiane, lui si alzò preparò il caffè e tornò a letto e lo sorseggiammo e finalmente ancora una volta come due dispersi nel deserto ci chinammo l'uno sull'altro a soddisfare la vera sete.

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