Lucio
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Era una mattina d'autunno inoltrato, un fine strato di ghiaccio imbiancava la strada di montagna. Giovanni stava riportando le pecore a valle dopo un'estate passata a brucare sui monti. Ricordava la sua infanzia e la transumanza, quando seguiva per brevi tratti gli uomini di casa, il nonno Adelmo, lo zio Tullio e suo padre che facevano il percorso a piedi, i cani pastore ad aprire e chiudere il corteo. Gli era sempre sembrata una festa questo viaggio a ritroso, a chiudere un ciclo iniziato nella tarda primavera con la salita all'alpeggio, i belati continui e l'abbaiare dei cani quando qualche temeraria si allontanava dal gregge. Ora per celerità e per le difficoltà organizzative relative ai permessi di transito, il viaggio veniva fatto in camion. Era lì assorto nei suoi ricordi quando sussultò a un colpo di clacson: di fronte a lui una coda di auto andava fornandosi. Alzò gli occhi verso lo specchietto retrovisore per sincerarsi che chi lo seguiva si fosse accorto del rallentamento improvviso e ora, da quel che poteva vedere, la coda si andava allungando notevolmente dietro al suo camion. Guardando avanti oltre l'incrocio, dove la provinciale si immetteva nella statale aveva notato che questa volta non era un incidente a bloccare il traffico. Tuttavia la cosa aveva dell'incredibile, tanto è vero che Giovanni pensò che in realtà dovesse trattarsi di un sogno: non si era mai alzato, non si era mai fatto la barba, non aveva bevuto il caffè preparato con la moka che sua moglie Rossana gli aveva lasciato pronta la sera prima, non aveva caricato le pecore non si era immerso nei ricordi di quelle lontane transumanze della sua infanzia. Doveva essere sicuramente così, tra poco sarebbe suonata la sveglia e lui avrebbe raccontato a Rossana di quel sogno in cui, poco dopo l'innesto della provinciale sulla statale che porta a valle, un uomo stempiato, dai capelli lunghi fluenti e un po' crespi di un biondo rossiccio, sedeva di traverso sulla statale, occupando entrambe le carreggiate, perché si trattava di un esemplare di umano grande come un grattacielo di venti piani. Indossava una giacchetta e un paio di pantaloni blu alla zuava, entrambi di velluto e ai piedi calzava un paio di polacchine di cuoio rossiccio che da sole erano lunghe come il suo camion. Giovanni si stropicciò gli occhi, sbattè due o tre volte le palpebre ma la situazione non cambiava. Probabilmente si trattava di uno di quegli incubi appiccicosi che fanno risvegliare con le palpitazioni. Il gigante teneva tra le mani ciò che rimaneva di un abete rosso ormai rinsecchito, lo osservava attentamente con lo sguardo mesto, lo rigirava. Ciò che rimaneva delle radici della pianta, che in vita doveva essere alta almeno venti metri, stava lì tra le sue mani insieme alla zolla di terra a cui era rimasto adeso . Ogni tanto quando il gigante imprimeva un movimento a quel povero tronco, si scrollavano e cadevano dall'alto dei sassi che creavano il panico tra i proprietari delle prime auto della colonna. Da un maggiolino, che si trovava quasi a ridosso della gamba destra del gigante, scese un uomo che, come se tutta la situazione non fosse surreale, si avvicinò, rosso invasato in viso, al gigante e urlando, con le vene del collo pronte a scoppiare, gli disse "Ehi tu, dico a te, come ti chiami? Ti vuoi togliere di torno? C'è gente che lavora qui!". Come se sgridare un uomo alto ottanta metri fosse cosa da tutti i giorni. Giovanni pensò che voleva trovarsi al più presto fuori da quella assurdità. Il gigante, il volto contrito, continuando a osservare quello scheletro di abete disse:"Mi chiamo Lucio e mi rincresce del disagio che le arreco; l'addolora la morte di questa che doveva essere sicuramente una splendida pianta?". L'uomo furibondo si rivolse nuovamente a Lucio insultando in malo modo e disse: "Se avessi dovuto disperarmi per ogni pianta caduta per la Vaia, a quest'ora sarei nudo e senza capelli, si levi di torno una buona volta!". Lucio a quel punto prese a piangere sommessamente, solo che, data la mole di quel l'insolito umano, si generò un terremoto che scatenò il panico tra gli incolonnati. Le pecore di Giovanni belavano di terrore e cominciarono ad agitarsi sul camion. Giovanni a quel punto scese, raggiunse la testa della colonna d'auto e gli disse:" Signor Lucio, si calmi e mi dica cosa l'addolora tanto. La Vaia è stato un immane cataclisma, ma ormai sono passati due anni, dobbiamo farcene una ragione e agire in modo che non succeda più." Lucio si calmò un attimo, guardò Giovanni e gli disse :"Lo giuro non sternutirò mai più a bocca aperta, ma vi prego perdonatemi voi umani, mi perdoni il bosco, mi perdonino i suoi abitanti e le montagne" . Giovanni lo avrebbe abbracciato, da molto tempo ormai nessuno si assumeva le proprie responsabilità e rifletteva sulle conseguenze dei propri gesti".
Come mi piace tornare a leggerti, cara Amanda. Le assenze non sono mai per cattiva volontà:) Un abbraccio e grazie per questo racconto. Il gigante Lucio è la Natura innocente. I colpevoli sono ben altri...
RispondiEliminaGià sono ben altri. Spero che tu stia bene Zena, un abbraccio
EliminaIl gigante Lucio è una persona sincera, ci piace e ne abbiamo bisogno. Rocky chiede solo di fare un pò di attenzione quando cammina e di guardare prima di appoggiare la scarpa , lui non è veloce a scansarsi.
RispondiEliminaUh ma Lucio il tripode lo rispetta sicuramente
EliminaIn un mondo in cui le responsabilità non se le prende nessuno quando vediamo che qualcuno se le prende diventa un gigante che per non saper ne' leggere ne' scrivere si prende anche quelòlo non del tutto sue.
RispondiEliminaEra proprio quello che intendevo
EliminaDovrebbero leggerlo questo bel racconto quelli che scaricano sempre il barile. Ma lo so, non servirebbe a niente perché l'irresponsabilità fa parte del loro essere.
RispondiEliminaGià, grazie Alberto
EliminaVaia, che tristezza per chi conosce bene il prima ed il dopo. Ci sono ferite che impiegheranno decenni per rimarginarsi e più ancora perche non vi sia più la cicatrice
EliminaPurtroppo
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