I vestiti di Mette
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Cecilia Bianchi |
Mette Hansen aveva fatto la moglie per anni. Faceva la madre a Merle da tredici anni, a Gitte da undici, a Tina da nove, e lo gestiva bene quel ruolo, tanto che le sue figlie, da adulte, facendo un bilancio del loro rapporto con la madre, non avrebbero avuto di che lamentarsi di lei. Tuttavia Mette si sentiva di essere sopra ogni cosa una sarta: sembrava fosse nata con le forbici in mano, sembrava che i suoi punti, precisi e invisibili, fossero il solo mezzo per esprimere una creatività inesauribile e una accuratezza per la quale era ormai nota in ogni angolo della Danimarca. Persino Peter Hansen, che pure aveva saputo rinunciare sia a lei che alle figlie, non si era sbarazzato di alcuno degli abiti che Mette aveva realizzato per lui nel corso degli anni. Un giorno, tornando a casa dalla bottega con le tre figlie, Tina che ancora camminava incerta, Mette aveva trovato la casa vuota, la stufa spenta e l'armadio completamente svuotato. Sulla tavola un biglietto diceva :"Scusami ma devo proprio andare". Dove? Perché? Con chi? Erano rimaste domande senza risposta. Aveva riacceso la stufa, lo aveva aspettato alzata per ore dopo aver sfamato e messo a letto le bambine pur nutrendo il fondato sospetto di una partenza che non prevedeva ritorno. Da allora aveva sempre ripensato alla perseveranza con cui lui le aveva richiesto di essere padre quando nei primi tre anni di matrimonio di figli non ne erano arrivati e alla rapidità con cui aveva abdicato al ruolo quel pomeriggio di ormai otto anni prima. Ripensando a quel giorno c'era un particolare su cui Mette non riusciva proprio a sorvolare: per le sue figlie quel padre non aveva fatto neppure l'ultimo gesto di ricaricare la stufa a legna prima di uscire dalle loro vite per sempre. Eppure era stato un padre molto amato e presente per le bambine. In quanto a loro due, non erano stati amanti avidi, ma c'era pur sempre ancora attrazione quando aveva posato sul tavolo quel biglietto che non aveva saputo neppure essere un sincero addio. Negli anni Mette, dopo il dolore dettato da un profondo senso di fallimento, dopo il rancore per quell'abbandono privo di spiegazioni, per quella fuga irresponsabile, si era chiesta dove avesse sbagliato, quando fosse iniziato a morire quel loro rapporto. A conti fatti aveva ammesso con se stessa che la frustrazione era stata più forte del dolore della perdita. Era il dolore sul volto delle figlie più grandi ad annientarla. Dopo un inizio solitario fatto di notti insonni e di preoccupazioni all'idea di crescere da sola le figlie, si era resa conto che ciò che sentiva di fare al meglio, cioè disegnare e creare con le stoffe, era il solo modo che riusciva a concepire per andare oltre a tutto questo, per non cadere a pezzi, non solo dal punto di vista economico, visto che ormai da lei si serviva l'alta società danese ma anche perché sentiva che lo doveva a se stessa e che solo così avrebbe potuto essere d'aiuto alle sue figlie dopo il primo periodo in cui aveva vissuto solo il buio dell'abbandono. Già prima le bambine, specie Tina, passavano molto tempo in bottega, le grandi la raggiungevano lì all'uscita da scuola, facevano i compiti e giocavano con gli avanzi delle stoffe. Tuttavia in nessuna delle tre era scattata la magia della passione per il cucito. Lei da bambina era stata acconto al suo babbo che lavorava preso un mercante di stoffe da cui era stato selezionato per la grande competenza riguardo alla qualità dei tessuti proposti dai fornitori, era un sarto che aveva lasciato il suo lavoro perché economicamente lavorare presso il mercante era più remunerativo, faceva tuttavia ancora piccoli lavori di sartoria nel tempo libero per arrotondare; da lui Mette aveva imparato il gusto per la precisione del cucito ma era stata la varietà delle sete e delle lane, dei rasi di cotone, dei velluti e dei damaschi i cui ritagli chiedeva in dono al mercante ad accendere la sua creatività. Dopo tutti quegli anni la scintilla non si era spenta: era un vulcano inesauribile di idee. Vestiva le figlie con abiti semplici ma ben rifiniti e non le era passata la mania che aveva da bambina di raccogliere i ritagli delle stoffe che avanzavano in bottega. Qualche anno dopo l'abbandono decise di fare per le bambine qualcosa di speciale per carnevale. Spesso tornavano da scuola addolorate per qualche parola di troppo sfuggita dalle bocche delle compagne sul conto della loro famiglia disgraziata, parole che naturalmente sentivano in famiglia, dicerie sulla loro povera madre abbandonata e sul loro padre che secondo alcuni aveva già da tempo una seconda famiglia con altri figli in un'altra città dove spesso si era recato per lavoro, secondo altri si era arruolato in terre lontane per sfuggire a quel matrimonio male assortito. Merle non raccontava nulla alla madre di quanto sentiva temendo di causarle ulteriore dolore, Gitte invece scoppiava in pianti disperati e quando la madre gliene chiedeva la ragione finiva per raccontare ogni cosa e ci volevano ore per calmarla e rimettere tutto l'astio delle malelingue fuori dalla porta della loro casa. Tina aveva pochi ricordi del padre e sembrava quella che risentiva meno della situazione. Con velluto e organza creò per loro tre abiti da libellule, intrecciò i loro capelli con fili di seta su cui aveva cucito dei vecchi bottoni di cristallo che il mercante le aveva regalato quando, ormai vecchio, aveva chiuso la bottega. Fu un successo, le compagne di scuola, le amiche e le madri di queste lodarono la bellezza di quei costumi. Per un giorno le sue bambine erano state sulla bocca di tutti da protagoniste. Alla sera Mette parlò a lungo con loro mentre le metteva a letto, disse che non avevano nessun motivo per non sentirsi leggere come libellule anche gli altri giorni dell'anno, che nulla di quanto era loro successo dipendeva da loro che era convinta che mancavano immensamente al loro padre ovunque ora fosse, che forse un giorno avrebbero potuto reincontrarsi e chiedere conto a lui di quella lontananza e magari il padre avrebbe avuto una buona spiegazione che loro erano tenute ad ascoltare prima di decidere, con le loro teste, se fosse sufficiente a giustificare quel senso di vuoto che qualche volta era per loro molto pesante e le rendeva tristi. La piccola Tina volle dormire con le ali. Era costato molto a Mette tenere quel discorso alle figlie mentre in cuor suo non trovava ancora, a distanza di anni, un senso a quanto era successo e a pensarci montava una rabbia sorda. Non sarebbe stato facile prendere sonno quella sera, si sedette al tavolo da lavoro. Il giorno dopo al risveglio le bambine trovarono tre copricapo sulla tavola insieme alla colazione. Erano dei cappelli particolari con degli uccellini dai colori bellissimi, che sembravano veri. Gli occhi sgranati dalla meraviglia li indossarono. «Per poterli indossare dovrete camminare a testa alta. In questa casa la nostra storia la cuciamo noi».
Bellissimo!
RispondiEliminaMia madre mi ha sempre parlato male di mio padre che l'aveva lasciata con 4 figli da sfamare e comunque nessuno si è mai permesso di fare dicerie sul nostro conto e noi anche senza cappello abbiamo sempre tenuto la testa alta.
Ciao Amanda, ti penso, almeno una volta al giorno.
Sono tossica 😁
EliminaUn epilogo che da solo vale la standing ovation.. purtroppo in tanti ci lasciamo cucire addosso storie che non ci appartengomo e spesso finiamo per muoverci con abiti e atteggiamenti che non ci appartengono, dovremo tutti curare con orgoglio il nostro essere e disegnare il nostro amor proprio come ci viene spontaneo.. comunque Mette che "mette" a letto le bambine meraviglioso!! ;)
RispondiElimina😄
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