L'ala rossa
Kalaillustration |
Il rumore del vento che ruzzola sull'erba alta: la piega, la incurva, la bacia e nel farlo frusciano insieme, quasi di piacere. Il sole ora si nasconde tra nuvole, che corrono così veloci da sembrare una mandria di bisonti dispersa dal suono secco di un fucile, ora illumina l'erba spazzata dal vento e crea onde dorate. La mano di una bambina, la mia mano, che affonda nella pelliccia morbida del cucciolo che presto si volta offrendo alle carezze una pancia rosa e rotonda. Poi si alza, abbaia e invita a seguirlo esercitando la presa dei giovani dentini sull'orlo del vestito. Il cucciolo non ha ancora un nome, dovrò dargliene uno quando avrò imparato a conoscere qualcosa in più del suo carattere. È una mattina di fine estate, si leva la polvere davanti a casa. I due uomini vestiti di nero sono tornati. Si erano presentati qui la scorsa settimana, li avevo sentiti discutere con mio padre ma erano distanti e non avevo capito di cosa parlassero. La mamma e io osservavamo la scena da dentro la piccola casa di legno in cu abitiamo da quando viviamo nella riserva. La porta era prima appena dischiusa e poi spalancata dal vento. Mia madre stava intrecciandomi i capelli ed era parsa sempre più nervosa tanto che talvolta me li tirava. Mi ero voltata a guardarla stupita, per lei occuparsi dei miei capelli era sempre stato un atto d'amore; erano neri e lucidi come la seta i capelli di Taipa, i miei capelli. Taipa significa "spiegare le ali" ed era quello che stavo imparando a fare in quei miei primi cinque anni. Quando papà rientrò sbattè la porta, i due uomini se ne erano andati. Oggi invece non ci sono state discussioni, i due hanno consegnato una lettera a mio padre, poiché non sa leggere, gli riferiscono che si tratta di un'ingiunzione che mi obbliga a seguirli per essere "scolarizzata". Gli avevano tolto la terra, ora venivano a reclamare sua figlia. Lo vedo mentre serra i pugni lungo i fianchi, sulla tempia gli pulsa la vena che mia madre chiama "della rabbia", ma non parla e non mi guarda nemmeno. Mia madre prova a farmi scudo col suo corpo ma ad accompagnare i due, vestiti di nero, c'è un uomo di legge. Taipa non porta nulla con sé, per l'ultima volta guarda il suo cucciolo che non avrà mai un nome, e quando finalmente rivedrà la casa e i genitori nessuno sarà più la stessa persona di questa mattina di fine estate. Mi strappano il nome, la famiglia, la lingua, la vita per come l'ho conosciuta nei miei cinque anni con le ali spiegate. Mi battezzano col nome di Catherine, e Catherine ha i capelli corti, perché la prima cosa che fanno quando arrivo a Lebret è tagliarmi le trecce. A Lebret trovo altri ragazzini Yupic e momentaneamente mi sento rassicurata, mi rivolgo a una bambina nella nostra lingua e lei mi guarda terrorizzata, alla scuola si parla solo francese, si studia catechismo, si soffrono il freddo e la fame, si viene puniti se non si parla, soprattutto se non si parla francese, si viene puniti se si parla, soprattutto se si parla Yupic, si viene puniti comunque. Abituati a vivere all'aria aperta veniamo accatastati in cameroni umidi e malsani in decine di bambini. Iniziamo ad ammalarci. La piccola Taipa, che sopravvive in Catherine, la notte, per scacciare la paura e la nostalgia, si culla cantando, muta, le canzoni che da generazioni le donne della nostra tribù cantano per fare addormentare i bambini e si racconta le storie che suo padre le ha raccontato. A volte lo sconforto e la paura mi fanno dubitare dell'amore dei miei genitori. Come hanno potuto abbandonarmi a questa gente? I bambini spariscono, si ammalano e non tornano dopo essere stati trasferiti in infermeria. A volte vengono prelevati la sera da un prete e quando rientrano in camerata molto tardi o il giorno seguente sembrano smarriti, diventano cupi, hanno gli occhi vuoti, appaiono sofferenti e si chiudono in un silenzio insano, nulla sembra più scuoterli. Cerchiamo di passare inosservati, teniamo gli occhi bassi, ci muoviamo solor richiesta o per necessità in piccoli gruppi silenziosi, un branco in cui il singolo prova ad annullarsi. Catherine ha passato giorni, mesi, anni giocando al camaleonte per mimetizzarsi nell'ambiente per poter sopravvivere e un giorno finalmente hanno deciso che Taipa è stata annientata e Catherine ha diritto a una vita adulta fuori da quella prigione istituzionalizzata il cui solo scopo è di "uccidere l'indiano dentro al bambino". Certo Taipa non esiste più ma Catherine è un fantoccio vuoto, una maschera che non intendo indossare mai più. Sono rientrata alla riserva appena la maggiore età me lo ha consentito, non hanno più alcun potere su di me ora. Incontro la madre e il padre di Taipa: mio padre, mia madre; non ci sono lacrime sui loro visi, né di gioia, né di dolore, qualcosa si è rotto in loro, il dolore li ha vinti, l'alcool li ha piegati ed è vederli così incapaci di gioia persino nel momento in cui le nostre strade si uniscono nuovamente che fa di me quello che oggi sono. Gli uomini vestiti di nero non potevano immaginare di aver non solo armato la mia mano contro di loro ma di avermi fornito, tramite Catherine, gli strumenti per la mia vendetta. Studio e perseveranza sono le mie armi, mi forniscono la determinazione che metto nello spulciare gli archivi a cui accedo a suon di sentenze: sono diventata un ottimo avvocato, la migliore difesa per tutti i sopravvissuti di Lebret e di altre scuole residenziali. Le cifre che si dipanano davanti a me hanno un peso intollerabile, i contorni di uno sterminio. A volte mi domando come il mio corpo sia potuto sopravvivere a Taipa e a Catherine. Il mio nome ora è Angwusnasomtaqa significa "Spirito madre corvo" è il nome che mi hanno dato coloro che con la mia difesa hanno vinto la prima causa contro il Canada, la nazione di cui tutti noi siamo cittadini per diritto di nascita e chi ci ha condannati per il solo fatto che padri dei nostri padri abitavano queste terre ben prima che questa nazione esistesse. Ho ali rosse, rosse come la passione che anima la mia sete di giustizia, come il ricordo, come le mie radici insanguinate, come il sangue degli innocenti che non hanno fatto ritorno.
Hai incominciato col "Il vento che accarezza l'erba" di Ken Loach e hai continuato rivoluzionaria come lui.
RispondiEliminaCiao Amanda.
Questo Ken Loach mi manca, comunque onorata dal paragone
EliminaOrribile quella storia vera, la mente è rivolata anche a Mission, e a come si possa fare tanto male pensando di fare del bene. Ma lo pensavano davvero?
RispondiEliminaSpesso la religione è potere e lo esercita come il peggior regime
EliminaWow! Trascrizione realistica di una realtà ormai ben nota e documentata. Canada, Stati Uniti, ex colonie… È essenziale continuare a parlare di queste tragedie collettive
RispondiEliminaDoveroso
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