Bill e io

 


Annalisa Parisi





Nulla, se non quel fazzoletto posato in grembo e stretto tra le mani, avrebbe potuto indicare l'ansia di quella partenza ad un osservatore. Non il taglio fresco di parrucchiere, non le petit robe noir che indossava quel giorno, né le decolletè nere che ad essa sempre coordinava, non la spilla dorata donatale dal padre che le era sembrato logico appuntarvi e neppure l'impeccabile rouge che sottolineava le labbra piccole ma carnose. Composta attendeva, seduta sulle due valigie, che componevano tutto il suo bagaglio, l'arrivo del treno a bordo del quale avrebbe salutato per sempre quella città in cui si era sentita spesso a casa. Non era così per me che pure sedevo al suo fianco immobile, tranquillo ed educato in modo che, quello stesso osservatore, vedesse specchiata in me tutta la rigorosa presunta quiete della mia umana. Per quanto mi concerneva io ero davvero finalmente tranquillo dopo giorni di indescrivibile angoscia legati da prima alla perdita e poi dal timore di essere scaricato e, a dirla tutta, ci ero andato a un passo. Non era la mia umana da molto, anche se in vero l'inizio del nostro legame risaliva a sei anni prima, quando aveva pensato di regalarmi, cucciolo, a suo padre che da tre anni, dopo la morte della moglie viveva solo. Non era sua madre, quella moglie, i suoi genitori avevano infatti divorziato quando lei era ancora bambina e proprio a causa del legame che aveva unito il padre a quella donna. La mia umana però non è sciocca e sapeva riconoscere un grande amore quando lo vedeva e dopo l'inevitabile dolore dell'abbandono, dopo aver assistito alle lacrime di sua madre, aveva visto negli occhi di suo padre e della sua seconda moglie una complicità di cui era stata da prima gelosa e poi testimone; segnali che mai aveva colto tra suo padre e sua madre in tutti gli anni che avevano condiviso la loro esistenza a tre. La delicatezza dei modi con cui la moglie di suo padre aveva saputo proporsi alla bambina aveva fatto il resto. Suo padre che all'inizio della nostra vita insieme non era parso molto entusiasta all'idea di doversi occupare di un cucciolo, aveva chiesto a lei di battezzarmi e lei guardandomi aveva detto Bill. Avrei potuto chiamarmi Oliver o Pascal ma no lei decise per Bill che accettai solo da adolescente e finii col convenire che mi rappresentava meglio di un Oliver o di un Pascal. Sei mesi fa suo padre la chiamò per comunicarle l'esito dei numerosi esami prescrittigli dal medico dopo che si erano presentati dei dolori addominali, una certa inappetenza e una perdita di peso. Lo avevo visto trascorrere una intera notte insonne, un continuo rigirarsi nel letto, tanto che avevo finito con lo sdraiarmi accanto a lui e lui non si era opposto come faceva sempre, anzi mi aveva abbracciato e alcune lacrime mi avevano bagnato il muso, fu allora che capii che le cose erano serie. Quando a seguito della telefonata, dopo un paio di giorni, la vidi comparire con una valigia alla nostra porta compresi che avevamo intrapreso una rotta senza ritorno. È durata poco la nostra vita a tre, suo padre fu ricoverato presto in un hospice, lei tornava a casa e mi portava fuori più per lei che per me, camminava senza rivolgermi mai la parola, mi sfamava, tornava da lui senza un solo gesto di affetto, di comprensione per la mia solitudine. Un giorno mi portò con sé all'hospice, suo padre le aveva chiesto di potermi salutare un'ultima volta e i medici lo avevano concesso. Quando lo vidi fu un tuffo al cuore: non fosse stato che fiutavo un poco del suo odore persistente tra quello delle medicine e quello inconfondibile della malattia, non lo avrei quasi riconosciuto, ma i suoi occhi spenti mi sorrisero con l'amore di sempre. Due giorni dopo morì. Lei organizzò impeccabilmente la cerimonia di commiato, un rito civile cui parteciparono gli amici di sempre e sua madre, che lei non vedeva da diverso tempo. Aveva preso un volo dal Canada per essere presente. «Non sarebbe mai mancata, questione di forma» le sentii confidare a un'amica al telefono. Non si vedevano da anni, dopo il suo trasferimento per una promozione di quelle a cui non si può rinunciare, quando ancora la figlia frequentava l'università. Ogni tanto l'andava a trovare alle feste comandate; quando c'era era una presenza ingombrante, la riempiva di domande sul lavoro, i progetti per il futuro, l'amore, salvo poi sparire nel nulla per mesi senza neppure un "come stai?". Si tolleravano bene a distanza, da vicine finivano col litigare. La sera la madre le chiese che ne avrebbe fatto della casa. «La vendo» le rispose immediatamente, era chiaro che quell'ultimo periodo le era servito a prendere le sue decisioni. «E lui?» e mi indicò col mento. «Non ho ancora deciso». Certo non avevo compreso le parole ma l'indifferenza del suo tono mi era chiara. Una scossa mi attraversò il corpo fino alla punta della coda, non avevo mai pensato di correre il rischio di essere ceduto o peggio abbandonato in un canile. Che ne sarebbe stato di me? Questa donna era stata il mio destino scegliendomi in una foto nella bacheca di un negozio di cibo per cani quando ero un cucciolo, aveva deciso questo mio stupido nome e ora poteva decidere di disfarsi di me come di un vestito usato e passato di moda. Il giorno dopo la madre ripartì. Io avrei potuto giocarmi le mie carte facendo il tenerone, avrei potuto leccarle il viso al mattino, chiederle di giocare quando mi portava al parco ma ho una dignità ero pronto ad affrontare le sue scelte qualsiasi cosa avesse deciso. Certo mi era passato l'appetito e il sospetto mi induceva a comportamenti che andavano dalla completa passività all'aggressività quando si avvicinava e non ne comprendevo chiaramente le intenzioni. Le ringhiavo contro. Cominciò a guardarmi con altri occhi. Avevo iniziato a perdere peso ed ero sempre più apatico. Lei riempiva scatoloni di oggetti che consegnava a opere di carità o che rivendeva grazie ad annunci su siti specializzati, venivano persone a portare via cose che avevano fatto parte della mia quotidianità, l'ansia si trasformò in disperazione mi sdraiai in un angolo senza più voglia di reagire, un giorno che venne a stanarmi la morsi, mi guardò con stupore ma non con diffidenza o rabbia, mi mise la pettorina, mi rassegnai a seguirla, avevo perso peso. Mi portò dal veterinario che mi visitò con aria perplessa, li sentii parlare ma non feci nemmeno attenzione a cosa dicevano ero arrivato alla rassegnazione. Quella sera in una casa ormai quasi vuota, si sedette sul pavimento vicino a me con una ciotola piena «Stupido cane, non mi resti che tu, che intendi fare?». C'era modo di capirla? Avevo perso completamente la fiducia e ora si comportava come se per lei fossi importante, ringhiai ma non smise di accarezzarmi, passarono le ore e si addormentò lì accanto a me, mangiai quella sera e quando si svegliò il registro tra noi era cambiato, ripresi fiducia giorno dopo giorno, era chiaro che mi avrebbe portato con sé ovunque intendesse andare.

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