Non era Apelle

 

Marco Ieie







Che non si chiamasse Apelle potrete ben comprenderlo anche voi perché ci vuole una certa cattiveria a chiamare così un neonato indifeso che oltre tutto è tuo figlio. Del resto, non si chiamava nemmeno Apollo ché ci sarebbe voluto invece sarcasmo o una impudica vanità a pensare di essere il padre di un Apollo. Eppure quel piccolo uomo così ordinario nel nome e nell’ aspetto aveva un dono speciale. Ma andiamo con ordine. Francesco Bianchi viveva in riva a un lago fin da quando era nato e, fin da quando suo padre glielo aveva insegnato, usava spostarsi con un barchino a chiglia piatta attraverso le acque placide del lago. Il suo temperamento si adattava perfettamente all’ambiente in cui viveva: un temperamento lacustre se così si può dire. Gli piaceva osservare la natura da quel punto di vista privilegiato: le poche case, il bosco, le rive erbose, il rumoroso silenzio della vita che sembrava scorrere cadenzata solo dalla luce e dalle stagioni. Appena i suoi genitori glielo avevano concesso, amava attraversare, solitario, il lago soprattutto di notte. Aspettava il tramonto leggendo attraccato alla riva. Portava con sé delle noci, un pezzo di pane e del formaggio o della frutta e quando la luce scendeva troppo per continuare a leggere si dirigeva al largo. Non c’era, a suo dire momento più bello: le luci delle abitazioni che si affievolivano allontanandosi dalla riva, le sagome delle case che si intuivano fluide oltre l'umidità dell'aria. Il canneto, il gracidare delle rane, qualche anatra selvatica che si ridestava spaventata spiccando il volo per il rumore dei remi che affondavano sotto il pelo dell’acqua con ritmo cadenzato. Arrivato al centro del lago tirava i remi in barca e si lasciava cullare e trasportare, il lago non era così grande da temere di essere trascinato troppo distante da casa e la corrente non era mai troppo forte se non nelle giornate di mal tempo in cui, comunque, non sarebbe uscito in barca. Stava lì con gli occhi fissi al cielo e contemplava un firmamento sterminato che i suoi compagni di scuola che vivevano in città non immaginavano nemmeno potesse esistere. E dunque ora sappiamo con che occhi Francesco Bianchi guardava il mondo: gli occhi dello stupore e della meraviglia. Però non sappiamo con che occhi il mondo, che per un adolescente significa essenzialmente compagni di scuola e amici, guardasse lui. Ci aveva provato Francesco con gli amici più di lunga data, quelli che gli sembravano più vicini a condividere quei cieli stellati, quei profumi ma niente li aveva coinvolti. Alla fine, si era sentito fatto di una pasta diversa e questo aveva finito con il condizionare anche il modo in cui lui stesso si vedeva. Il mondo lo vedeva come un essere solitario ed eccentrico, non il massimo per un ragazzo di quell’età. Lui invece si vedeva trasparente dato che non era in grado di riflettersi in loro. Avrebbe  preferito chiamarsi Apelle, almeno forse avrebbe attirato l’attenzione, ma così probabilmente sarebbe stato troppo, non faceva per lui. Non che ambisse a fare il capo branco e in linea di massima abitare distante dagli altri era una buona scusante per coltivare quella solitudine che sentiva come un bozzolo caldo, eppure a volte il silenzio diventava una voragine che rischiava di risucchiarlo. Era in una di quelle notti in cui la solitudine era più un peso che una conquista che avvenne per la prima volta. Piangeva seduto nel barchino, sopraffatto da bellezza e dall’oblio, quando le acque del lago iniziarono a illuminarsi: erano piccole luci che salivano dalle profondità dei fondali e si avvicinavano alle sponde della barca. Sembrava che i pesci del lago fossero venuti a portare conforto, erano grandi o molto piccoli e tutti avevano una luce, Francesco era quindi intento a guardare quella scena che aveva del miracoloso quando iniziarono a scendere dal cielo altri pesci che recavano nelle bocche mute delle stelle, quasi volessero riverirlo o sostenerlo. Pensò di stare sognando: il ragazzo silenzioso riceveva regali dagli esseri più silenziosi al mondo. Lo stavano omaggiando come lo stessero riconoscendo simile a loro, come se intuissero il suo dolore, come se comprendessero il peso della solitudine che lui provava quella sera. Non c’era, a memoria di Francesco, spettacolo che potesse eguagliare tanta bellezza, non le stelle cadenti a San Lorenzo, non i fuochi d’artificio che si specchiavano nell’acqua del lago la notte della festa del santo patrono. Era una processione incessante. Venivano dal cielo e dall’acqua gli porgevano una piccola stella e riprendevano il loro viaggio. Pieno di gratitudine Francesco col cuore colmo di gioia si inchinava non sapendo come ricambiare tanta bellezza. Poi così come erano venuti se ne andarono chi per cielo, chi per acqua. Non era Apelle e nemmeno Apollo e non seppe mai come mai tutti i pesci fossero venuti a galla, ma lo fecero per lui, quella notte e tutte le altre in cui il suo cuore aveva bisogno di conforto.




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